lunedì 27 aprile 2020

Un disaccordo sul “Disaccordo”

Quando ho letto il Comunicato stampa della CEI in merito alle disposizioni governative per la gestione dell’emergenza COVID 19 a partire dal 4 maggio ho provato un primo moto di rabbia. Poi mi sono ricordato quanto ha scritto uno dei miei indimenticati e indimenticabili maestri nell’arte dell’esegesi biblica, Ortensio da Spinetoli, ne “L’inutile fardello”: "Non è certo facile togliere di mezzo i vescovi e gli esponenti dei dicasteri romani, ma se potessero provare a tacere, se non altro per il troppo parlare che hanno fatto fino adesso, ne avrebbe senz’altro un gran beneficio tutta la comunità credente".
Vivo il mio essere presbitero svolgendo quello che il comunicato definisce “servizio verso i poveri” e posso assicurare che questo periodo è stato molto, ma molto faticoso per me e per tutte e tutti coloro che condividono con me tale servizio (in questo frangente ho scoperto, con sorpresa, che il linguaggio rispettoso che cerchiamo di usare non è spesso compreso. Durante i controlli subiti, come giusto,  dalle Forze dell’Ordine in merito agli spostamenti, spesso mi sono reso conto che parlare di homeless o senza fissa dimora creava difficoltà… se invece parli di “barboni” tutti capiscono al volo, e non sono il solo ad aver constatato questo, chiedete al mio Direttore Caritas…).
Per tornare a noi, ho trovato avvilente e strumentale “usare” ancora una volta “i poveri” per arrivare a giustificare la ripresa della “vita sacramentale”, quasi fosse l’unica esperienza di quella “libertà di culto” sancita dalla Costituzione (e qui mi attirerò sicuramente le ire di qualcuno: perché non fare lo stesso appello anche in favore di chi sta celebrando il mese di Ramadan? Certo, fatte salve precauzioni e distanziamento sociale…). Inoltre, come non rendersi conto ancora che malgrado anni di catechesi, incontri e, soprattutto, celebrazioni eucaristiche in tutte le salse e per tutte le sagre proprio queste comunità fedeli al precetto domenicale spesso condividono, senza patemi d’animo e senza troppe remore, logiche e politiche pervase di razzismo, di chiusure, di rifiuti di accoglienza di fronte a poveri di ogni tipologia.
Questo comunicato mi addolora e mi rattrista allo stesso tempo. Mi rattrista perché dai miei Vescovi mi aspettavo una maggiore apertura al soffio dello Spirito e un più coraggioso spirito di discernimento. Già don Cristiano Mauri nella sua riflessione, che ho condiviso, offre ottimi spunti al riguardo (potete trovare la sua riflessione qui ) io mi limito a una sottolineatura.
            Le parole dei nostri Vescovi trasmettono una certa paura nell’aprirsi per cercare strade nuove per dire Dio oggi, per ridare forza al messaggio evangelico. La paura, si sa, non è una buona consigliera. E proprio in questo frangente emerge tutta la paura di perdere peso, potere e visibilità. Tutti siamo certi, a parole, di non essere più dentro un regime di Christianitas, ma allo stesso tempo assistiamo a un dispiegamento di forze per conservare in vita gli ultimi brandelli di quel “piccolo mondo antico” che si va disfacendo sotto i nostri occhi. Ecco qui un’altra occasione malamente sprecata per iniziare un cammino di discernimento al fine di dare un senso  a quella “nuova evangelizzazione” che pare già vecchia prima ancora di cominciare.
            La terribile prova di COVID19 ha acceso alcune spie, ha fornito delle indicazioni per cominciare a ripensare seriamente alle nostre modalità di proposta di vita evangelica ed ecclesiale (che a volte paiono essere rette più parallele che convergenti). I nostri amati Vescovi che fanno? Si affrettano a “spegnere” quelle spie per chiedere con forza di tornare ad accendere “gli amati ceri”: accanimento terapeutico sulle strutture parrocchiali (tenute in vita artificialmente) è forse la qualifica che meglio definisce quella “azione pastorale” caldamente richiesta dal comunicato (oddio, non è che i “funerali a 15” concessi dal Governo mostrino una maggior lungimiranza e buon senso: hanno il medesimo sapore delle famose “brioches” di Maria Antonietta…).
Paradossalmente (ma, evangelicamente, non troppo) i Vescovi emettono il loro comunicato proprio nella Domenica III di Pasqua, quando la Liturgia propone il racconto dei due di Emmaus. Ora, dire che quello “Stolti e tardi di cuore…”, sia stato detto pensando al 2020 mi pare eccessivo, ma le somiglianze tra i due che cercano di tornare alla loro “normalità” e i nostri Vescovi in cerca di “tranquillizzante normalità” sono così evidenti che ogni commento sarebbe superfluo. E nemmeno il fatto che i due “celebrano” l’Eucaristia a Emmaus può servire ad appoggiare le richieste del comunicato CEI: l’Eucaristia si fa veicolo di Presenza se prima vi è un serio e approfondito confronto con la Parola, unica porta di accesso al riconoscimento del Crocifisso Risorto (altrimenti si celebrano riti che parlano di idee ma non di incontro personale…).
            Per non tediare oltre, concludo lasciando la parola a due amici che, anche se, purtroppo,  non amati da tanti, sono capaci di dar lustro e dignità alla parola evangelica come pochi.
Aldo Antonelli scrive: “Credere nella Risurrezione vuol dire avere questa coscienza di Dio che non abita più nei cieli (come si poteva credere prima dell’Incarnazione), ma che nella toponomastica umana non abita più nemmeno nel tempio o nei luoghi deputati al culto. La residenza di Dio non è più stanziale, ma nomade, si dipana lungo le strade del mondo. Ci teniamo e rilevare che, stando ai Vangeli, Gesù nella sua vita pubblica non è mai andato al tempio per pregare o per partecipare agli atti liturgici. . E’ vero, sì, che Gesù, soprattutto secondo il vangelo di Giovanni, frequentava il tempio, ma sempre per parlare al popolo e spiegare il suo messaggio, visto che là, di solito, si riuniva la gente… (…) Questa dichiarazione di presenza di Gesù trova corrispondenza nell’esperienza gioiosa dei viandanti di Emmaus: «Noi non sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava?» (Luca, 24, 32). Prefigurata dall’ Arca dell’alleanza (Cfr. Numeri cap. 10), trova piena attuazione nella comunità del Risorto. Come a dire che Dio non è una presenza localizzabile (“se vi diranno è qui o là non fidatevi….”, Matteo 24,26), ed ancor meno può essere oggetto di possesso (il teutonico Gott mit uns dei fascioleghisti….). Dio non può essere oggetto di possesso, da rivendicare o da usare come arma. La sua “Trascendenza” ne impedisce l’oggettivazione. Mentre la sua “Immanenza” lo propone come termine di relazione.
E per chiudere, rimando al testo di J.M. Castillo, “L’umanizzazione di Dio”, laddove Pepe scrive: “Gesù non incontrava il Padre nello spazio sacro del Tempio e neanche nel tempo sacro del culto religioso. Gesù ha parlato del Padre e con il Padre nello spazio profano della campagna e della montagna e nel tempo profano della convivenza con la gente”.

Abbiamo ancora strada da fare, come i due di Emmaus.

Buona vita.

Don Luciano e don Cristiano Mauri

6 commenti:

  1. tutto ottimo, ma non posso perderci la vista a leggere caratteri microscopici.

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    1. Aumenta la grandezza delle lettere sullo schermo: spingendo Control e + insieme si ingrandiscono i caratteri

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  2. Quando da bambino frequentavo il catechismo, mi avevano insegnato e fatto studiare a memoria che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo perchè è IMMENSO. Ora mi vorrebbero far credere che si trova solo nelle chiese? Come è rimpicciolito questo Dio!

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  3. grazie don Luciano, hai espresso alcune idee che mi frullavano in testa, tipo la libertà di culto e l'azione pastorale che mi sembra non siano mancati in questo periodo: messe, riflessioni, preghiere su ogni mezzo di comunicazione, certo il digiuno eucaristico pesa ma...e i sacerdoti anche se non sono andati nelle case hanno telefonato, mandato messaggi, piccole catechesi, e comunque aiutato chi aveva bisogno. grazie don ciao

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  4. Interessanti riflessioni che ci spingono a metterci in cammino

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