Abitare un mondo complesso (I)
Stiamo vivendo un cambiamento d'epoca, come papa Francesco ha spesso ricordato. Come tutti i cambiamenti, positivi o meno, anche questo reca con sé apprensione e a volte paura. Tanti fra noi, penso in particolare, ma non solo, alle persone anziane e ai ritmi lenti che caratterizzano la loro esistenza, vivono tutto questo con un grande senso di disorientamento e smarrimento. Le cose cambiano in fretta, troppo in fretta. Il nostro è il tempo della frenesia, del «tutto e subito»; è il tempo del «possibilmente prima di ieri». Tutto questo genera quella che io definisco la «fatica/paura del pensare», lo stento nel trovare tempo per fermarsi un momento a pensare, a esaminare, ad approfondire. Ci definiamo «Sapiens sapiens», animali «intelligenti», ma questa suddetta intelligenza, cioè la capacità di andare in profondità, di non fermarsi all'apparente, di «leggere dentro» la complessità della realtà in cui viviamo mi pare stia diventando merce rara. Trovare il tempo per pensare non è produttivo, si dice, non è segno di efficienza, non «rende». Da qui la difficoltà a stare dentro questo processo di cambiamento, che comunque è irreversibile e, per certi aspetti e anche per fortuna, non dipende in maniera totale da noi.
Questo cambiamento d'epoca è segnato in modo particolare dalla riflessione sulla cosiddetta «complessità». «Complesso» non è sinonimo di «complicato», ma molto di più e lo vedremo.
Dal punto di vista etimologico «complesso» deriva dal latino «cum-plectere» e indica l'azione di intrecciare, ripiegare più volte. Il suo contrario è rappresentato da «semplice», a sua volta dal latino «sem(el)-plectere», intrecciare, ripiegare una volta sola.
In effetti, oltre a essere a volte piuttosto complicato, il nostro mondo, la nostra esistenza, persino il nostro tempo sono in verità «complessi», pieni di intrecci e di pieghe che hanno bisogno di tempo e cura per essere compresi ma mai presi, definiti ma mai finiti. Di fronte alla tentazione pervasiva di «una iper-semplificazione, che scarta tutto ciò che non rientra nello schema della riduzione, del determinismo, della decontestualizzazione» (Edgar Morin, La sfida della complessità) dobbiamo osare la sfida della complessità. Essa infatti rappresenta, almeno in parte, un antidoto contro quei processi di «atomizzazione e separazione» che non sono altro che la traduzione contemporanea del vecchio adagio: «divide et impera» e aggiungerei «fatti i casi tuoi».
Propongo questa riflessione perché mi sento inerme ma anche sconcertato davanti alle sceneggiate intrise di sfacciata arroganza cui stiamo assistendo in questi tempi e che ci sono gentilmente offerti dai cosiddetti «potenti» di questo mondo, cui si accodano volentieri le «mosche cocchiere» nostrane la cui versione è rappresentata al meglio dal vice-premier leghista (ma su questo torneremo).
Il fenomeno della «complessità» è in relazione a quello di «entropia» e qui vi rimando ai vostri più o meno giovani ricordi delle lezioni di fisica (secondo principio della termodinamica). Il chimico russo di origine belga I. Prigogine, deceduto nel 2003, ha messo in luce che quando un sistema qualsiasi supera una certa soglia critica di complessità appare una nuova struttura che lo riorganizza con nuove proprietà ma sempre e comunque esistenti nel sistema interamente considerato. La rottura di un certo equilibrio non deve fare paura né destare preoccupazioni particolari. Guardiamo alla natura e proviamo a dirlo in altre parole. Ordine e caos, in natura, sembrano coesistere da sempre. Quando una soglia critica viene superata si apre uno spazio per nuovi possibili equilibri, ossia lo spazio delle possibilità. Chiudersi a tutto questo, «semplificare» forzatamente il tutto, ridurre alla propria visione la complessità del reale è estremamente pericoloso e soprattutto nocivo per la vita in tutte le sue espressioni.
(fine parte I – continua)
Buongiorno, in attesa della parte successiva.
RispondiEliminaGrazie.
Paola