sabato 12 marzo 2022

Guerra in Ucraina. Si vis pacem... para iustitiam

Guerra in Ucraina. Si vis pacem... para iustitiam


Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 10 del 19/03/2022

Prima di offrire questa riflessione, premetto che sono contrario a ogni forma di violenza e, in particolare, alla guerra in ogni sua forma. Inoltre, se a chi legge non fosse chiaro, non parteggio per il Putin russo né per gli altri “Putin” sparsi per il mondo che fanno di guerre e devastazioni il loro hobby preferito. Desidero aprire la mia riflessione con la Pacem in terris di Giovanni XXIII: «Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: a essere le prime artefici nell’attuazione del medesimo; e hanno pure il diritto alla buona reputazione e ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre» (51b). Il conflitto di questi giorni è il frutto di un seme piantato nel 2014 con lo scontro in Crimea e nel Donbass che ha generato le repubbliche indipendenti filo-russe. Quel seme ha prodotto il frutto avvelenato del conflitto cui stiamo assistendo non inermi, visto che stiamo inviando armi in Ucraina. Una domanda me la sono posta: dove eravamo nel 2014? Perché in quel conflitto che ha causato migliaia di vittime abbiamo girato lo sguardo dall’altra parte? Credo che una riflessione sia doverosa. Nel mondo dello spettacolo vige la massima The Show must go on. Anche tutto ciò che riguarda le relazioni con le altre nazioni sia improntato alla regola Business must go on. Non ci interessa tanto la Crimea o il Donbass, l’Afghanistan o il Congo o la Nigeria, per citare alcuni Paesi che vivono conflitti devastanti, ma il fatto che, al di là di tutto, Business must go on. In questo momento siamo tutti impegnati a dar sollievo, ad accogliere questa umanità ferita e dolente, impaurita e impoverita, che giunge dall’Ucraina. Tuttavia, se questa risposta immediata all’urgenza non viene attraversata da una seria e articolata riflessione che coinvolga tutte e tutti noi, nazioni, organismi internazionali, Chiese, sul tema della pace che sgorga dalla giustizia, dovremo rimboccarci le maniche per far fronte all’ennesima emergenza. Una pace intesa solo come assenza di conflitto e che non trovi il suo fondamento nella giustizia non può essere duratura. Una pace a servizio esclusivo del business, del denaro che genera potere e del potere che genera denaro, non può essere definita pace a meno di rinunciare al senso autentico delle parole (in questo siamo maestri: chiamare “operazione speciale” una guerra o definire “esportazione di democrazia” l’occupazione di un Paese ne sono un esempio lampante). Una pace così definita ha il sapore di una “tregua” concordata solo per concludere affari che non possiedono alcun tratto di umanità, al pari della guerra o di qualsivoglia forma di violenza. Non posso rinunciare al riferimento biblico. La narrazione della creazione (Genesi) è di una chiarezza disarmante. Il narratore non ci presenta un Creatore che vuole sottomettere il creato e trasformarlo in un palcoscenico da cui far sfoggio della propria onnipotenza, ma un Creatore che “si ritira”, che “fa spazio”, offre all’altro la possibilità di vivere e non di sopravvivere. Per questo invita l’umano a “mangiare di tutto ma non tutto”: lo invita a fare spazio all’altro affinché ciascuno possa vivere bene e in pienezza. Come? Invitando l’umano a farsi “pastore della propria animalità”, a far sì che l’animale preda dei propri istinti realizzi la chiamata all’umanizzazione delle relazioni con l’altro realizzando quella “somiglianza” con Colui della cui “immagine” è portatore. Questa è la riflessione che ci consegna quell’uomo di secoli fa che vede il suo mondo pieno di conflitti, come il nostro, abitato dalla bramosia di possesso, madre di conflitti e guerre. Con “giustizia” non intendo il semplice “a ciascuno il suo” (e già sarebbe un gran passo), ma la giustizia che impegna a umanizzare l’umanità, che “obbliga” a prendersi cura del bene dell’altro (che Gesù mostrerà con la sua parola e il suo modo di vivere). È la giustizia che prima di guardare al proprio business si chiede se il benessere attuale non sia prodotto dallo sfruttamento dell’altro. È la giustizia che non tiene conto solo del proprio orticello ma sa rifiutare la logica che permette di indossare, ogni tanto, la veste del “buon samaritano” per mettersi la coscienza a posto. È la giustizia che si traduce in quella carità evangelica che “in-forma” la mia vita e le mie scelte di ogni giorno (non come la carità ad libitum di certi politici che oggi vorrebbero recuperare profughi ucraini ma che ieri, davanti a profughi di altre guerre, si atteggiavano a “difensori della patria”). È la giustizia che deve prevalere nelle comunità che si professano cristiane, a volte più attente alla salvezza dell’economia che all’economia della salvezza, strada maestra per una giustizia umanizzata e umanizzante. Siamo tutti figli del detto Si vis pacem, para bellum. È ora che impariamo a declinare in altro modo: Si vis pacem, para iustitiam.

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